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Danno ambientale – Risarcimento – Sanzione

Tar Lombardia 25 luglio 2013, sentenza n.1957

Repubblica italiana
In nome del popolo italiano

Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente

Sentenza
sul ricorso numero di registro generale 4533 del 2000, proposto da:
(omissis) Spa (Già (omissis) Spa), rappresentata e difesa dagli avv.ti (omissis) e (omissis), con domicilio eletto presso l’avv.to (omissis);
contro
Comune di Senago, rappresentato e difeso dall’avv. (omissis), per l’annullamento:
— dell’ordinanza n. 18 del 23 giugno 2000, con la quale il Sindaco del Comune di Senago individuava le società ricorrenti tra i “responsabili della contaminazione”;
— (con primo atto per motivi aggiunti) del verbale della Conferenza di servizi del 15dicembre 2000;
— (con secondo atto per motivi aggiunti) della diffida del Responsabile del settore Edilizia ed Urbanistica del Comune di Senago del 3marzo 2003 e del verbale della Conferenza di servizi del 15 dicembre 2000;
— (con terzo atto per motivi aggiunti) della nota del Comune di Senago del 7 febbraio 2005;
— nonché di ogni altro atto ad essa eventualmente connesso, presupposto o conseguente.
Visti il ricorso, i ricorsi per motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Senago;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 29 maggio 2013 il dott. (omissis) e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

Fatto e diritto
1. La società ricorrente, al principio degli anni ‘80, per lo smaltimento dei reflui industriali prodotti dal proprio stabilimento, si era avvalsa della (omissis) Spa Tuttavia, nel febbraio del 1983, le autorità competenti avevano scoperto in Senago (alla via Mascagnì n. 38) un serbatoio fisso, di proprietà della società (omissis), utilizzato dalla (omissis) Spa per lo stoccaggio di rifiuti speciali industriali (tra cui quelli della ricorrente). Trattandosi di serbatoio privo delle prescritte autorizzazioni di legge, non a tenuta stagna e dove erano stati stoccati rifiuti speciali industriali altamente tossici e nocivi, il Comune di Senago aveva d’ufficio eseguito i lavori di sgombero e bonifica, affidando gli stessi alla (omissis) Sas, sopportando un costo di £ 124.823.586 (ciò in quanto, la (omissis) Spa, nel frattempo fallita, aveva addotto l’impossibilità finanziaria di ottemperare all’ordinanza di ripristino nel frattempo impartita).
1.1. A questo punto, con atto di citazione del 3 dicembre 1984, il Comune di Senago aveva convenuto innanzi al Tribunale di Milano la Coede Sas, la Cep Spa e le imprese che a quest’ultima avevano demandato lo smaltimento dei propri rifiuti (nel dettaglio: la (omissis), oggi (omissis) Spa; la (omissis) Spa, prima denominata (omissis) Spa; la (omissis) Spa; la (omissis) Spa). Il Tribunale di Milano (con sentenza n. 11160/88), dichiarata l’improponibilità della domanda proposta contro la (omissis) Spa (perché fallita prima della notifica della citazione), aveva dichiarato la responsabilità (ex articolo 2055 C.c.) delle altre imprese convenute (compresa l’odierna ricorrente) per l’illecita attività di smaltimento, condannando le stesse al pagamento della somma (già rivalutata) di £ 155.000.000, a titolo di refusione del danno economico derivante dallo smaltimento dei reflui tossici; per contro, aveva rigettato la pretesa avente ad oggetto il risarcimento del danno ambientale, per carenza di prova. La Corte di Appello di Milano, con sentenza n. 2004/92, aveva confermato la pronuncia del giudice di prime cure. Sennonché, la Suprema Corte, con sentenza n. 9211/95, aveva riformato la sentenza della Corte territoriale con esclusivo riguardo al rigetto della domanda risarcitoria del danno ambientale, stante l’erroneità di aver ritenuto non ottemperato il relativo onere della prova (in particolare, motivando nel senso che, essendo la compromissione “in sé” del bene ambientale valutabile solo attraverso accertamenti, eseguiti da qualificati organismi pubblici, in presenza di questi ultimi non avrebbe potuto fondatamente rigettarsi la richiesta del danneggiato di consulenza tecnica di ufficio). In ottemperanza a quanto stabilito dalla Corte Suprema, riassunta la causa, la Corte di Appello di Milano (con sentenza n. 3406/2003, passata in cosa giudicata), accertato tramite Ctu l’inquinamento dell’area vicina al serbatoio a causa della presenza di diclorometano superiore al limiti di legge (nel dettaglio, eccedente di tre volte il limite di accettabilità per terreni ad uso commerciale e industriale stabilito dal Dm 471/99), aveva condannato in solido le convenute al risarcimento del danno ambientale quantificato in ulteriori € 36.000,00. Sulla scorta degli accertamenti compiuti dal Ctu nel corso del citato giudizio di rinvio, traggono scaturigine le successive iniziative assunte dal Comune di Senago, che hanno determinato il presente contenzioso davanti al giudice amministrativo.
1.2. Venendo ora dettagliatamente all’oggetto dei ricorsi va premesso che: — con il ricorso principale è stata impugnata l’ordinanza n. 18 del 23 giugno 2000, con la quale l’amministrazione comunale resistente aveva individuato la società ricorrente tra i responsabili della contaminazione dell’area sita in Senago (catastalmente identificata al foglio 10, mappali 50, 52 e 29), per il superamento del diclorometano riscontrato in forza della perizia giudiziale svolta dal Ctu nell’ambito del giudizio davanti alla Corte d’Appello di Milano (conclusosi con la sentenza n. 3406/2003 passata in giudicato), ed ha ordinato alla stessa società, in solido alle altre società indicate nel provvedimento ed alla società (omissis), proprietaria dell’area, di provvedere a presentare progetto di bonifica; — con i primi motivi aggiunti notificati in data 28 febbraio 2001, è stata impugnata la conferenza di servizi del 15 dicembre 2000 nella parte in cui aveva prescritto alla ricorrente, in uno con le altre società intimate, di procedere alla presentazione di un progetto di bonifica, statuendo che le responsabilità e gli oneri sarebbero stati solidalmente a carico di tutte le parti; — con i secondi motivi aggiunti, notificati in data 11 giugno 2003, è stato impugnato anche il provvedimento 3 marzo 2003 del Responsabile del Settore Edilizia Privata del Comune di Senago, con il quale era stata diffidata la società ad eseguire le indagini richieste; — con i terzi motivi aggiunti, notificati in data 15 aprile 2005, sono state impugnate anche la nota del Comune di Senago del 7 febbraio 2005, nonché la Conferenza di servizi del 29 marzo 2001. Avverso tali provvedimenti sono state sollevate plurime censure di violazione di legge e sviamento di potere.
1.3. Si è costituita in giudizio l’amministrazione intimata, chiedendo il rigetto del ricorso. Sul contraddittorio così istauratosi, la causa è stata discussa e decisa con sentenza definitiva all’odierna udienza.
2. Il ricorso non può essere accolto in quanto infondato. Possono, pertanto, sin d’ora ritenersi assorbite le eccezioni pregiudiziali sollevate da controparte (la prima, secondo cui, avviato il procedimento di bonifica, non sarebbe consentito al soggetto di sottrarsi all’attuazione degli interventi stabiliti nel piano di caratterizzazione; la seconda che argomenta l’inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti per mancata notifica al Ministero dell’Interno; la terza con cui si eccepisce l’irricevibilità della memoria avversaria).
3. Con un primo ordine di motivi, la società lamenta: — che l’ordinanza sarebbe stata assunta sulla base dell’errato presupposto che le società ricorrenti sarebbero state responsabili dell’inquinamento e del superamento della concentrazione del limite di diclorometano, mentre la maggiore concentrazione della sostanza sarebbe stata invece frutto di successive utilizzazioni del serbatoio; — che l’area in questione sarebbe stata oggetto di ben due bonifiche effettuate d’ufficio dal Comune (una nel 1984 e l’altra nel 1989), i cui oneri sarebbero stati interamente corrisposti all’amministrazione, ivi compreso l’onere per il ripristino ambientale del predetto superamento del diclorometano, calcolato in 70 milioni di vecchie lire dal Ctu e liquidato in € 36.000,00 nella sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 3406/03; — che la pretesa del Comune di una nuova bonifica richiesta con l’impugnata ordinanza sarebbe del tutto illegittima ed illogica, in quanto preordinata a far gravare ingiustamente sulla società ricorrente gli oneri per la bonifica dell’intera area di proprietà della locale società (omissis) ai fini della sua utilizzazione ad un uso diverso dall’industriale; — che, all’epoca dei fatti (1982) e delle bonifiche (1984 e 1989) la concentrazione del diclorometano riscontrato nella perizia del maggio 2000 (peraltro in “hot spot” di superficie, “limitata e localizzata” e di “basso tenore di concentrazione” come definita dal Ctu) sarebbe rientrata nel limite tabellare per le aree industriali come stabilito al tempo dalla delibera della Dgr Lombardia 2.8.1996, n. 6/17252, cosicché la pretesa ad anni di distanza di applicare i più restrittivi criteri del Dlgs 471/99 sarebbe illegittima (tanto più che il quadro normativo, nel trentennio intercorso, si sarebbe ulteriormente modificato con l’emanazione del Dlgs 132/06, statuendo nuovi criteri, Csc e Csr, analisi rischio sito specifica); — che il diclorometano, di cui si sarebbe accertato il superamento ai limiti tabellari introdotti con il Dm 471/99 (nel 2000 a 18 anni di distanza dall’inquinamento attribuito alla Società ricorrente) sarebbe una sostanza volatile alifatica che si disperde nell’aria e non potrebbe essere trattenuta in loco per 18 anni; ne conseguirebbe che il diclorometano accertato nelle analisi del maggio 2000, all’evidenza, non sarebbe riconducibile ai reflui conferiti dal (omissis) nel 1982; — che i provvedimenti impugnati sarebbero affetti da difetto assoluto di motivazione, perché non verrebbe fornito alcun elemento sulle ragioni di individuazione della società ricorrente tra destinatari dell’ordinanza.
Tali rilievi non possono essere accolti.
3.1. In termini generali, la responsabilità dell’utilizzatore di un sito contaminato, una volta accertato il nesso di causalità tra la sua attività produttiva e l’avvenuta contaminazione dei luoghi, è disciplinata, per le fattispecie antecedenti l’entrata in vigore del Dlgs 3 aprile 2006, n. 152, dall’articolo 17 del Dlgs 22 aprile 1997, n. 22, il cui comma 2 dispone che: “Chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento” (per il periodo precedente alla entrata in vigore di tale decreto legislativo, è comunque l’articolo 2050 C.c ad imporre al responsabile di attivarsi al fine di porre in essere atti e comportamenti unitariamente finalizzati al recupero ambientale del sito). Secondo la giurisprudenza, gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree costituiscono una forma di responsabilità oggettiva dell’autore dell’inquinamento, in quanto l’obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge a prescindere dall’esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all’autore dell’inquinamento, sempre che sussista il rapporto di causalità tra l’azione (o l’omissione) dell’autore dell’inquinamento ed il superamento (o pericolo concreto ed attuale di superamento) dei limiti di contaminazione, in coerenza col principio comunitario “chi inquina paga”.
3.2. Orbene, la responsabilità della società ricorrente (in solido con altre imprese produttrici) per la contaminazione del suolo di Senago (comprovata dalla presenza di diclorometano eccedente il limite di accettabilità di oltre il 300%, oltre che dal contenuto elevato di metalli, soprattutto zinco, rinvenute nella zona antistante il serbatoio, in concentrazione rientrante nei limiti di legge, ma così elevata da costituire sicuro sintomo di grave danno ambientale) è stata accertata con sentenza civile passata in cosa giudicata. La Suprema Corte di Cassazione (n. 9211/1995) ha, sul punto, precisato che “il soggetto produttore di rifiuti tossici (nella specie, rifiuti industriali speciali) è, comunque, sottoposto alla responsabilità prevista dagli articoli 2043 e 2050 C.c. e non può esimersi da essa sostenendo di aver affidato completamente a terzi lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti stessi, in quanto tutti i soggetti coinvolti nel ciclo di produzione e smaltimento dei rifiuti tossici — e, in particolare, il produttore — sono ugualmente responsabili e solidalmente tenuti ad adottare le idonee misure di sicurezza, anche nella fase di smaltimento, affinché lo sversamento definitivo e lo stoccaggio dei rifiuti avvenga senza danno a terzi”. Ancora, la menzionata pronuncia ha affermato che “è vero che all’epoca dello sversamento … non era ancora entrata in vigore la normativa che impone al produttore di rifiuti il controllo sulla discarica, introdotto con il Dpr 10 settembre 1982 n. 915, è altresì vero che, anche prima della normativa di settore, il produttore di rifiuti tossici o nocivi era obbligato, in base ai principi generali, e cioè in base al richiamato articolo 2050 C.c., a non cagionare danno nell’esercizio di un’attività indubbiamente pericolosa quale quella che da luogo alla produzione di rifiuti tossici e nocivi a livello industriale, anzi, di adottare tutte le misure idonee ad evitare ogni possibile danno, anche quello ambientale”.
3.3. Il giudicato civile, è bene osservare, ha radicalmente respinto l’argomento difensivo volto a dimostrare l’interruzione del nesso causale in ragione di un’asserita successiva manomissione del serbatoio piombato ed inserimento di rifiuti dopo la sigillatura (cfr. la sentenza n. 3406/2003 della Corte di Appello di Milano, passata in giudicato, nella parte in cui ha escluso sia la manomissione del serbatoio, in quanto sempre rimasto piombato, sia l’utilizzo del serbatoio e dell’area da parte di soggetti ulteriori per lo stoccaggio di rifiuti industriali).
3.4. Quanto, poi, all’eccezione, sollevata anche nel presente giudizio, secondo cui la presenza del diclorometano eccedente i limiti stabiliti per un’area ad uso industriale previsti alla Tab. l, colonna b), ali. a) Dm 471/99, non potrebbe imputarsi alla ricorrente dal momento che la normativa appena richiamata è successiva ai fenomeni di contaminazione rilevati, deve replicarsi che non si tratta certo di applicazione retroattiva, bensì concomitante alla rilevazione di una situazione di inquinamento destinata a perdurare fintantoché non venga riportata nei limiti tollerati; alterazione che rendeva attuale l’obbligo di adozione delle misure di risanamento nel momento stesso del suo accertamento.
3.5. Non è, altresì, accoglibile la tesi che assume l’illegittimità dell’ordine di bonifica in commento, paventandosi che quest’ultimo possa risultare, per così dire, “duplicativo” della già disposta condanna al risarcimento del danno ambientale. Difatti, vengono in rilievo dispositivi riconducibili a funzioni del tutto distinte, operanti in via complementare. Sul punto, sono necessarie le seguenti precisazioni.
Secondo condivise acquisizioni giurisprudenziali, il concetto di danno ambientale (sviluppatosi a partire dall’articolo 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, applicato ratione temporis nel citato processo civile) denota un tipo di compromissione, consistente nell’alterazione, deterioramento, distruzione, in tutto o in parte, dell’ambiente; il danno ambientale supera e trascende il danno ai singoli beni che ne fanno parte e con esso l’ordinamento ha voluto tener conto non solo del profilo risarcitorio, ma anche di quello sanzionatorio, che pone in primo piano non solo e non tanto le conseguenze patrimoniali del danno arrecato, ma anche e soprattutto la stessa produzione dell’evento, e cioè l’alterazione, il deterioramento, la distruzione, in tutto o in parte dell’ambiente, e cioè la lesione in sé del bene ambientale. Gli spunti di maggiore interesse della disciplina, non a caso, sono quelli in cui si prevede, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, una determinazione in via equitativa, rapportata non al solito criterio “differenziale”, ma parametrato a criteri del tutto inusitati per il vecchio modello del danno risarcibile nella responsabilità civile, in quanto il bene ambiente è fuori commercio, e come tale insuscettibile di una valutazione venale secondo i prezzi di mercato, dovendo essere considerato nel suo valore d’uso. Il giudice, infatti, deve tener comunque conto: a) della gravità della colpa individuale, b) del costo necessario per il ripristino dell’ambiente; c) del profitto conseguito dal trasgressore, in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali.
Tale connotato “repressivo” (nella specie, della condotta di chi ha concorso nell’utilizzo di un serbatoio non autorizzato, dal quale fuoriuscivano, come accertato dalla Usl, i rifiutati tossici e nocivi che vi erano stati sversati), che conferisce al torto ecologico la peculiarità di identificarsi nel puro fatto lesivo del bene ambientale, rende evidente l’eterogeneità funzionale del rimedio rispetto all’ordine di bonifica costituente, per contro, una misura prettamente ripristinatoria.
Nel caso di specie, pur avendo il Giudice di appello “ancorato” la liquidazione del danno ambientale alla spesa occorrente per la bonifica del luogo (non avendo questi ritenuto possibile stabilire un nesso tra l’entità del danno e le singole attività produttive, né possibile ricostruire il profitto delle singole ditte, contrariamente alla rilevazioni del Ctu), è evidente che tale valore economico è stato utilizzato solo in via parametrica, ovvero al fine di “dimensionare” (attraverso il richiamo ad un dato oggettivo) il danno all’ambiente inteso pur sempre nella sua descritta accezione sanzionatoria, e non certo per trasfigurare la domanda di risarcimento del danno all’ambiente nella mera compensazione del pregiudizio patrimoniale (tale circostanza, del resto si sarebbe posta in contrasto con la pronuncia della Cassazione). In definitiva, sembra indubitabile che il giudicato civile, al di là della formula liquidatoria utilizzata, abbia inteso risarcire non il pregiudizio prettamente patrimoniale arrecato ai beni pubblici, ma quello non patrimoniale (avente anche funzione sanzionatoria) rappresentato dal vulnus all’ambiente in sé e per sé considerato, costituente bene di natura pubblicistica, unitario ed immateriale.
3.6. Alcuna sovrapposizione, altresì, sussiste tra l’ordine di ripristino ambientale qui impugnato ed i precedenti interventi di bonifica, con i quali il Comune ha provveduto d’ufficio esclusivamente allo svuotamento ed alla bonifica del serbatoio e dell’area di sedime (quella che, come si è visto, ha dato luogo alla richiesta di rimborso delle spese sostenute per il ripristino ambientale mediante l’azione giudiziaria avanti al giudice civile). Nel presente giudizio, per contro, viene in rilievo la bonifica dell’intera area circostante via Mascagni, risultata alterata dalle perdite e dagli sversamenti del serbatoio: dunque, un pregiudizio ambientale ulteriore, sia pure scaturente dalla medesima azione illecita di stoccaggio dei rifiuti nel serbatoio.
4. Con ulteriore doglianza, la ricorrente censura l’ordinanza sindacale n. 18/2000 nella parte in cui cita sia l’articolo 14 che l’articolo 17 del Dlgs 22/97, in quanto a suo dire non sarebbe consentito l’indifferenziato richiamo a fattispecie e ad obblighi diversi.
In senso contrario, deve osservarsi che il provvedimento non è affatto ambiguo quanto al fondamento del potere: al di là dei richiami del preambolo, con tutta evidenza essa ordina, ai sensi degli articolo 17 del Dlgs 22/97 e dell’articolo 8, commi l, 2 e 3 del Dm 471/99, la presentazione di un progetto di bonifica del terreno, nonché la verifica puntuale delle condizioni del terreno e dell’eventuale stato di contaminazione della falda acquifera.
5. Anche il vizio d’incompetenza dell’ordinanza n. 18/2000, in quanto adottata dal sindaco anziché dal dirigente, è destituito di ogni fondamento.
L’ordine di bonifica è senza dubbio sussumibile nel perimetro del potere sindacale di ordinanza contingibile ed urgente quando, come nella specie, si tratti di azione specificatamente indirizzata (quantomeno) alla elisione dei pericoli per la salute pubblica.
6. I primi motivi aggiunti hanno ad oggetto l’impugnazione del verbale della conferenza di servizi del 15 dicembre 2000, nella parte in cui prescrive alla ricorrente, in uno con le altre società intimate, di procedere alla presentazione di un progetto di bonifica, statuendo che le responsabilità e gli oneri saranno solidalmente a carico di tutte le parti.
Orbene, ai fini del rigetto, deve replicarsi che: — del tutto legittimamente la ricorrente è stata invitata non alla prima fase della conferenza dei servizi, riservata agli enti istituzionalmente competenti a assumere le decisioni sulla bonifica (Regione, Provincia, Comune, Arpa), bensì alla seconda, finalizzata ad istituire un contraddittorio con i soggetti individuati come responsabili relativamente alle scelte di progetto; — l’obbligo di predispone un unico progetto di bonifica era già prescritto nell’ordinanza n. 18/2000, tra l’altro non impugnata sotto questo aspetto (in ogni caso non si comprende il tipo di interesse pregiudicato); — quanto, poi, all’ammonimento che, in mancanza di accordo per la presentazione di un unico progetto di bonifica, si avrebbe avuto riguardo al progetto presentato dalla proprietaria, si tratta di una disposizione prettamente esecutiva del vincolo solidale alla presentazione del progetto, anch’esso già apposto nell’ordinanza n. 18/2000.
7. Con i secondi motivi aggiunti è stato impugnato anche il provvedimento 3 marzo 2003 del responsabile del settore edilizia privata del Comune di Senago, con il quale si diffida la società ad eseguire le indagini richieste con il verbale della conferenza di servizi del 29 marzo 2001. La ricorrente, in sostanza, contesta la necessità di prelievi in una area diversa da quella dove era collocato il serbatoio e la legittimità stessa dell’indagine chiesta alle ricorrenti.
In disparte il carattere prettamente endoprocedimentale della diffida, anche tale ricorso deve essere respinto, tenuto conto che: — all’esito della seconda Conferenza di servizi (convocata con comunicazione del 6 marzo 2001), esaminati tutti i progetti presentati, è stato disposto che “alla luce dei progetti presentati per la redazione del progetto definitivo si ritiene necessario estendere le indagini a tutta l’area dell’ex serbatoio con l’esecuzione di 4 o 5 trincee esplorative della profondità di mt 2, 5.3 con prelievo in parte a mt 0,5-1,5 e fondo scavo”; — tale richiesta di indagini concerne pur sempre il terreno identificato catastalmente al fg. 10, mappali 50, 52 e 29, corrispondente all’area di Via Mascagni n. 38, di cui all’ordinanza sindacale n. 18/2000; — essa trova ragionevolmente fondamento nella necessità di estendere le indagini a tutta l’area dove era collocato il serbatoio, considerato che quest’ultimo era risultato forato e quindi erano temibili sversamenti delle sostanze inquinanti nel terreno; — le indagini suppletive, strettamente implicate dalla necessità di realizzare la bonifica integrale del terreno, non potevano considerarsi un adempimento irrealizzabile da parte della ricorrente (per l’impossibilità di accedere ad una area di cui non si era proprietari), in quanto essendo anche la proprietaria del terreno destinataria in solido della ingiunzione, le società produttrici dei reflui avrebbero senz’altro potuto giovarsi della collaborazione di quest’ultima per lo svolgimento delle indagini (tra l’altro, la ricorrente non ha documentato alcun comportamento ostruzionistico serbato dalla proprietà); — quanto al fatto che la diffida del 27 marzo 2003 accordasse alle destinatarie un nuovo termine per l’effettuazione dei campionamenti, non può certo parlarsi di una “auto” rimessione in termini del Comune (che avrebbe, a questa stregua, dovuto invece procedere d’ufficio), in quanto il potere discendente dall’articolo 17 del Dlgs 22/97 non era certo sottoposto a termine decadenziale (cosicché l’ordinanza avrebbe esaurito i propri effetti solo a seguito della realizzazione della bonifica); — tra l’altro, come osservato da controparte, l’esecuzione di ufficio da parte del Comune avrebbe comunque esposta la ricorrente alla ripetizione delle somma; — la mancata indicazione del termine e dell’autorità avanti alla quale ricorrere, come è noto, incide solo sulla decorrenza del termine per impugnare.
8. Con i terzi motivi aggiunti, notificati in data 15 aprile 2005, è stata impugnata anche la nota del Comune di Senago del 7 febbraio 2005, nonché la Conferenza di servizi del 29 marzo 2001.
Anche l’ultimo ricorso è infondato.
La nota del 7 febbraio 2005 non ha affatto un contenuto generico foriero di perplessità, in quanto: — è un atto endoprocedimentale, dunque privo di autonoma lesività, con il quale il Comune ha diffidato le società al completamento del progetto definitivo di bonifica, avvisandole che, in mancanza di esecuzione spontanea, si sarebbe proceduto alla bonifica di ufficio (iscrivendo onere reale sul bene); — il richiamo ai contenuti degli atti precedenti (noti alle parti) rendeva agevolmente ricostruibile il suo contenuto precettivo; — non poteva la nota (anche qui) mirare alla rimessione in termini del Comune, trattandosi di un potere (come visto sopra) non sottoposto ad un termine finale dì efficacia; — è stata resa dal responsabile del settore territorio ed ambiente, che aveva redatto anche la diffida del marzo 2003; — la mancata indicazione (anche qui) del termine e dell’autorità avanti alla quale ricorrere, incide solo sulla decorrenza del termine per impugnare; — il ritardo della bonifica è da addebitare, in massima parte, all’ostruzionismo delle società riconosciute responsabili con giudicato civile.
9. Dal rigetto integrale dei motivi di ricorso, consegue anche il rigetto della domanda risarcitoria (fondata sull’asserito “accanimento del Comune che pretenderebbe di attribuire il diclorometano rinvenuto nel maggio 2000 in un solo campione di terreno ai rifiuti stoccati ad insaputa delle ricorrenti nel serbatoio della società (omissis)”).
10. Le spese di lite seguono la soccombenza.
11. Non può essere, parimenti, accolta la domanda risarcitoria, proposta dalla amministrazione resistente, ex articolo 96 C.p.c., non essendo stato allegato e provato il concreto danno subito (richiesta, secondo i principi generali, anche per l’accertamento della responsabilità processuale).

PQM

il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia (sez. I), definitivamente pronunciando:
— rigetta i ricorsi;
— condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’amministrazione resistente che si liquida in € 7.000,00.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 29 maggio 2013 con l’intervento dei magistrati:
(omissis)
Depositata in Segreteria il 25 luglio 2013

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