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La violenza delle merci

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Il recente scandalo industriale e commerciale “diesel gate” ha richiamato, alla mia memoria, la lettura di uno stupendo articolo, o piccolo trattato, scritto circa 20 anni fa dal grande ricercatore Giorgio Nebbia  a proposito di truffe e trasformazioni delle merci e dei mercati che hanno contraddistinto, non soltanto per l’autore, l’evoluzione della specie Homo e il suo tremendo impatto sulla natura.

la redazione

I commerci della vita

 In una prima grossolana approssimazione si potrebbero definire le “merci” come le cose che si scambiano, si vendono e si comprano. E’ vero che il comprare e vendere gli oggetti, in cambio di denaro, è un’attività squisitamente umana, ma è altrettanto vero che gli scambi di materia e di energia avvengono in, e fra, tutti gli esseri viventi, anzi sono alla base della vita.

Comincerò allora con una arbitraria estensione del concetto di merce a qualsiasi cosa naturale —  materia ed energia — il cui scambio coinvolge gli esseri viventi, indipendentemente dal fatto che tale scambio sia accompagnato da passaggio di denaro. Potremmo così descrivere la vita nella biosfera come un continuo scambio — o commercio — di materia e di energia da un organismo all’altro e da ogni organismo vivente al mondo circostante.

Come è ben noto, l’albero o qualsiasi vegetale vive “acquistando” (gratis) anidride carbonica dall’atmosfera; combinando questa anidride carbonica con acqua e utilizzando l’energia raggiante “acquistata” (anch’essa gratis) dal Sole, i vegetali “fabbricano”, al loro interno, sostanze chimiche (zuccheri, carboidrati, eccetera). Nel corso del processo (che, come è ben noto, viene chiamato fotosintesi) i vegetali “vendono” ossigeno all’atmosfera.

Per poter essere utilizzati ai fini della vita i prodotti fotosintetici vengono ulteriormente trasformati utilizzando sali inorganici (contenenti azoto, fosforo, potassio, zolfo, calcio e molti altri elementi ancora), per lo più “acquistati” (sempre gratis) dal suolo ricco di soluzioni saline in cui sono presenti gli elementi nutritivi necessari. L’analogia con i processi del mondo umano deve essere apparsa così evidente ai biologi da indurli a chiamare i vegetali organismi produttori, prendendo a  prestito un termine dalle attività manifatturiere.

Durante e alla fine della loro vita i vegetali in parte “vendono” al suolo le loro spoglie che vengono “acquistate” da organismi decompositori; questi ultimi crescono e si moltiplicano a spese delle molecole dei vegetali; i decompositori trasformano queste ultime in altre molecole, gassose (anidride carbonica) o solide (sali  minerali), che vengono cedute al terreno e che saranno usate da altri vegetali. Da questo punto di vista nella biosfera non esistono scorie, nè rifiuti, nè accumulazione, e, a ben guardare, neanche la morte, così come l’intendono gli umani: tutti gli scambi di cose naturali, sotto forma di materia e di energia “servono” solo a propagare  la vita.

Una parte dei vegetali viene “acquistata” dagli organismi animali che, per vivere, dipendono da altri, dai vegetali, appunto: questi organismi animali, che i biologi hanno chiamato, prendendo ancora una volta a prestito una parola dal mondo delle merci umane, consumatori, traggono dalle molecole vegetali la materia e l’energia necessarie per la vita. “Acquistando” ossigeno dall’atmosfera, gli animali trasformano le molecole del cibo (vegetale o anche di altri  animali) in gas (anidride carbonica, vapore acqueo, metano, idrogeno solforato, ammoniaca)  che vengono “venduti” all’atmosfera, in sostanze organiche e inorganiche solide che vengono “vendute” al suolo, dove sono “acquistate” dai soliti organismi decompositori che abbiamo conosciuto poco fa.

Alcuni animali vengono “acquistati” come cibo da altri animali, rispettivamente le prede e i predatori. Ma gli scambi di materia e di energia fra gli animali assumono forme anche più complesse, talvolta di solidarietà e cooperazione, come nel caso della simbiosi e del mutualismo, talvolta di sfruttamento, come nel parassitismo o nella predazione, eccetera. Anche  gli animali, alla fine della loro vita, non muoiono ma le loro spoglie arrivano al suolo dove  sono anch’esse trasformate dai decompositori e forniscono le materie necessarie per la prosecuzione della vita.

Per un fenomeno sorprendente, “miracoloso”, perfino l’energia solare che arriva sulla Terra viene restituita dalla Terra agli spazi interplanetari circostanti quasi totalmente (con alcune piccole complicazioni che qui trascureremo) tanto che la superficie della Terra riesce da milioni, forse miliardi di anni, a conservare una temperatura  di circa 288 gradi Kelvin (15 gradi Celsius), caldissima rispetto alla temperatura degli spazi interstellari e freddissima rispetto alla temperatura delle stelle. Eppure è proprio questa strana temperatura di 288 gradi Kelvin che consente alla Terra — unico fra i corpi celesti — di avere sulla sua superficie acqua allo stato liquido e quindi di ospitare la vita, così come noi la conosciamo.

Se guardassimo i flussi di materia e di energia che coinvolgono produttori, consumatori, decompositori — cioè la vita — con gli occhi dell’economia mercantile, riconosceremmo una frenesia di scambi abbastanza simile a quella che si osserva in un negozio o in un supermercato. Ma per l’avvento della bottega o del supermercato sarebbe stato necessario lasciare correre per  migliaia di milioni di anni la vita nella biosfera — con i suoi flussi, in ciclo chiuso, di materia ed energia fra produttori, consumatori e decompositori — fino a pochi milioni di anni fa quando, fra alcuni primati, è comparso un animale che ha seguito una propria  strada ed  ha cominciato a manifestare i caratteri che noi attribuiamo al genere Homo.

L’animale Homo

 Per tre o due milioni di anni i nostri antichi predecessori non  sono stati molto differenti dagli  altri animali. La principale differenza stava forse nella capacità di osservare, di comunicare in qualche modo i risultati delle proprie osservazioni ad altri animali dello stesso genere, nella tendenza ad usare le zampe anteriori, liberate dalla funzione di locomozione grazie alla  posizione eretta sulle zampe posteriori, per toccare e modificare il mondo circostante.

Sta di fatto che per lunghissimo tempo i nostri  predecessori si sono nutriti di bacche, foglie e  radici trovate e raccolte nel loro andare per il mondo, si sono protetti dal caldo e dal freddo e  dai predatori cercando rifugio in grotte o caverne, e con la caccia — caratteristica dei predatori — hanno ricavato cibo da altri animali. Queste piccole comunità di raccoglitori-cacciatori sono sopravvissute a glaciazioni e alluvioni interglaciali e hanno lentamente perfezionato la propria esperienza preparando quella che sarebbe stata la prima grande rivoluzione della storia.

La rivoluzione agricola si è verificata circa 10.000 anni fa, alla fine del Paleolitico e all’inizio  del Neolitico, quando alcuni gruppi di persone (persone, ormai e non più solo animali) hanno scoperto che certe piante potevano essere riprodotte e certi animali potevano essere catturati, tenuti entro spazi limitati, allevati e uccisi senza bisogno di rincorrerli in una faticosa caccia. Da tali animali potevano essere tratti carne alimentare, pellami, latte. Si è avuta così la transizione da piccoli gruppi di raccoglitori-cacciatori a comunità di agricoltori-allevatori che hanno cominciato a fermarsi su un territorio.

Questa transizione ha avuto alcune conseguenze, appunto, rivoluzionarie. La prima è stata l’introduzione dei concetti di “proprietà” e di “classe”; alcuni gruppi o individui hanno considerato “propri” i campi e la terra e gli animali. Gli altri, quelli esclusi dalla proprietà, i più poveri, o più deboli, o meno capaci, hanno dovuto ottenere il cibo vendendo il proprio lavoro che così, pur nelle sue forme più primitive, è divenuto merce. E’ nata in questo modo una stratificazione fra una ristretta classe dominante e un’altra, più numerosa, di donne e uomini soggetti ad altri.

La natura diventa merce

 La violenza di alcuni umani su altri, di alcune classi su altre, si è tradotta ben presto anche in una violenza contro la natura.Dopo millenni passati al freddo e al caldo, nelle caverne o all’aria aperta, le nuove comunità stanziali hanno cominciato a costruire delle abitazioni durature. Qualcuno ha così scoperto che certe pietre o terre potevano essere utilizzate per costruire case o edifici con cui difendersi dagli animali selvaggi, o per proteggersi dal caldo e dal freddo, muri con cui circondare, a fini di difesa, il villaggio.

Si trattava adesso di cercare, nell’ambiente circostante, le pietre più adatte per la costruzione di edifici e rifugi, oppure quelle che si prestavano per la produzione di metalli meglio adatti all’estrazione e alla lavorazione delle  pietre, alla macellazione degli animali, al taglio delle piante. La natura diventò così non più solo sede della vita, secondo i grandi flussi prima descritti, ma fonte di materie prime, minerali e metalli e la specie vivente “diversa” la andò modificando attraverso le cave, i fumi dei fuochi.

L’estrazione dei metalli richiedeva fonti di energia e la più accessibile era il legno dei boschi, per cui è cominciato un lento diboscamento, anche per ottenere maggiori spazi per le coltivazioni agricole e per i pascoli. Col passare del tempo vennero fatte altre scoperte: la conservazione della carne e delle pelli è facilitata dall’aggiunta di sale, una sostanza bianca che si trova qua e la’, in giacimenti o che si forma per evaporazione dell’acqua di mare. Chi viveva lontano dai giacimenti o dalle coste marine doveva andare a cercare il sale altrove.

La violenza degli scambi commerciali

 Così alcuni membri della comunità, più intraprendenti, o coraggiosi, affrontarono i mari e terre  sconosciuti alla ricerca della materia prima strategica. Per ottenerla dovevano portare con sè prodotti agricoli o pelli o metalli e, una volta tornati al posto di partenza, potevano chiedere un premio per il loro coraggio e intraprendenza. Si formò in questo modo un’altra classe di persone, i mercanti, che potevano esigere case altrettanto belle come quelle dei capi e dei re. Nelle case delle  classi dominanti l’alimentazione era migliore, le donne e gli uomini coprivano il proprio corpo con qualcosa di più raffinato delle semplici pelli, si cercavano sostanze capaci di condire e dare sapore al cibo. Chi  possedeva materie rare, come il sale, i metalli, le spezie, o ornamenti come l’ambra, poteva barattarle con altri prodotti e spesso diventava ricco o ricchissimo.

Se coloro che detenevano materie importanti — strategiche, come diremmo oggi — non accettavano gli scambi, venivano piegati con la forza e le guerre, guerre che oggi  chiameremmo imperialiste per la conquista delle materie prime: gli sconfitti venivano fatti prigionieri e schiavi e rappresentavano una grande riserva di  mano d’opera gratuita che poteva essere comprata e venduta come merce.

Sodoma e Gomorra, le città ricchissime e, a sentire il racconto biblico, perverse, dovevano la loro ricchezza al commercio del sale di cui esistevano intere montagne sulle rive del Mar Morto e di cui forse avevano una specie di monopolio. Il racconto biblico (Genesi 14 e 19) della distruzione delle due città riflette il ricordo di guerre condotte con successo dai popoli vicini per la conquista della preziosa materia prima.

La stratificazione in classi e l’imperialismo fecero sentire ben presto le loro conseguenze. La  prima è la nascita dell’universo delle merci: l’ottenimento dei beni della natura e dei loro prodotti di trasformazione non avviene più attraverso la collaborazione e cooperazione, come avviene nelle società animali, ma attraverso lo scambio di merci e servizi mediati, già 4000 anni fa, dal denaro.

La violenza del mercante

Il mercante, soggetto indispensabile nell’evoluzione delle società umane, non è mai stato amato: la sua avidità per il denaro ne ha fatto l’oggetto di scherno di intellettuali e di disprezzo da parte dei “signori”. Ricchissimo, informato sulle strade e gli oggetti di commercio, ha cercato di vendicarsi aumentando la propria ricchezza e il proprio profitto attraverso le frodi e gli imbrogli.

Si potrebbe scrivere una storia dell’umanità descrivendo le frodi commerciali, alla cui scoperta e repressione si sono dedicati studiosi di scienze naturali e governanti. Quasi ogni società ha dei suoi codici he contemplano punizioni per i commercianti che vendono merci alterate o sofisticate. La “scienza” delle frodi si è raffinata a mano a mano che i viaggi si facevano più lunghi e le merci più costose. Venivano falsificate le leghe dei metalli (operazione a cui peraltro si dedicavano anche i governanti, specie in epoca di inflazione, la riprova dell’antichità e quasi universalità delle strette relazioni fra potere politico e potere economico e fra le rispettive violenze), le spezie, i coloranti, lo zucchero.

Di frodi parlano Plinio e Dioscoride, i naturalisti vissuti all’epoca dell’impero romano; i mercanti arabi e occidentali nel Medioevo avevano a disposizione manuali che spiegavano da quali frodi occorreva guardarsi e nell’Islam medievale esisteva uno speciale ufficio  governativo che si occupava della repressione delle frodi. Ma è col sorgere del capitalismo che le frodi diventano vera e propria attività scientifica e, per inciso, è per la loro conoscenza e repressione che nasce una “scienza” merceologica. Il mercante appare così il nemico dell’acquirente, anche se cerca di mascherarsi come colui che  si da tanto da fare per soddisfare i bisogni dell’acquirente, del “consumatore”, come si chiamerà più di recente, anzi che si considera al servizio del consumatore !

La violenza della tecnosfera

La seconda conseguenza del possesso delle merci è la rottura dei cicli chiusi naturali: per fini “economici” i beni vengono tratti in crescente quantità dalla natura, vengono trasformati in oggetti, cose utili, merci, e alla natura non tornano più o tornano sotto forma di scorie non più decomponibili nè assimilabili di nuovo nei cicli naturali. Così nella, anzi “sulla”, biosfera si  inserisce un nuovo mondo, la “tecnosfera“, l’universo dei beni naturali trasformati in merci dagli esseri umani.

Da quando i beni naturali della biosfera vengono trasformati e modificati dalla tecnica umana, la presenza e l’attività degli esseri umani fanno sì che certi territori della natura vengano impoveriti (di pietre, minerali, animali, legname, erba dei pascoli, eccetera). Una parte dei materiali viene immobilizzata per tempi lunghi e lunghissimi (per esempio negli edifici) e una parte va a contaminare i territori della natura sotto forma di scorie dei processi umani di  trasformazione della natura.

Per alcuni millenni questa operazione è stata relativamente lenta, ma negli ultimi tremila anni  si è andata facendo sempre più rapida. Ancora oggi possiamo riconoscere le voragini delle cave da cui gli egiziani traevano le pietre o i minerali; i segni del diboscamento avvenuto in epoca greca e romana per aumentare la superficie dei campi coltivati; troviamo in Toscana depositi di scorie delle attività di estrazione del ferro praticate dagli etruschi; troviamo le  gallerie delle miniere nel Sinai, in Sicilia, nell’Attica e i segni (e le conseguenze ecologiche) del diboscamenmto provocato dalla crescente richiesta di fonti di energia.

Nel mondo umano comincia a comparire il concetto di sfruttamento della natura, intesa come riserva di cose utili e di merci per gli esseri umani. Si è trattato di una reazione a catena, in cui  popoli anche lontanissimi nello spazio hanno scambiato esperienze e conoscenze, materie prime e merci, accelerando tale sfruttamento. E ben presto è stato possibile riconoscere le profonde differenze che esistono fra gli scambi di materia e di energia nelle altre forme di vita e quelli che coinvolgono gli esseri umani. Gli umani che scambiano merci cercano di trarre un vantaggio individuale da tale scambio: il venditore cerca di trarre profitto dalla vendita e il  compratore cerca di fare lo stesso nell’acquisto.

Nella vita di tutti gli altri “abitanti” della biosfera, invece, non ci sono imbrogli, nè profitto, nè frodi, nè accumulazione. Questo non significa che la vita è priva di dolore. I conigli non sono contenti di essere utilizzati come nutrimento dalle volpi e forse l’erba del prato non è contenta di essere mangiata dalle pecore. Ma il dolore associato ai fenomeni di nutrizione, di predazione, eccetera, non è dovuto al prevalere di un essere sull’altro, ma rientra nel grande quadro della propagazione della vita.

La conquista delle merci e l’imperialismo

 Tutte le società del passato hanno contribuito, per decine di secoli, ai perfezionamenti della  tecnica e della produzione delle merci e all’ingrandimento della tecnosfera. La società tecnica primitiva — questo termine non esclude in molti casi una grande raffinatezza  nelle costruzioni, nelle macchine e negli oggetti — è stata basata a lungo sull’uso, come fonti  di  energia, di risorse naturali rinnovabili come il calore solare, il legno e il moto del vento e delle acque, sull’uso del legno e delle pietre come materiali da costruzione e su alcune attività minerarie e metallurgiche. Patrick Geddes (1850-1932), nel 1914, e poi Lewis Mumford (1895-1990), nel 1934, hanno chiamato “eotecnica” questa organizzazione della società. Benché l’influenza sulla natura e nei rapporti sociali del periodo eotecnico fosse relativamente  modesta, i suoi segni si riconoscono ancora oggi sotto forma di scomparsa dei boschi e di cumuli di scorie.

L’aumento delle conoscenze sulle merci e l’allargamento della tecnosfera innescarono e moltiplicarono le guerre di conquista delle materie prime. Si è già accennato alla conquista, nell’antichità, dei paesi e popoli che possedevano giacimenti di sale e di minerali metalliferi. Molte delle grandi guerre fra imperi antichi, impero romano compreso, potrebbero essere rilette come eventi per la conquista di pascoli, acque, greggi, schiavi.

Ma forse la prima grande rivoluzione  merceologica  si ebbe ai tempi di Roma, quando una società abbastanza ricca e raffinata poteva saziare la propria passione di lusso con la ricerca e l’acquisto di  merci esotiche, fra cui spezie, coloranti, tessuti pregiati. Si hanno così le spedizioni sulla via delle spezie lungo il Mar Rosso, che era stata controllata per secoli dai faraoni e poi dai Tolomei, le guerre contro i Parti, il cui dominio rappresentava il terminale occidentale della via della seta proveniente dalla Cina. Tutte le imprese imperiali romane si possono probabilmente anch’esse “rileggere” in chiave delle materie o delle risorse naturali conquistate o cercate.

A mano a mano che la domanda dei paesi consumatori si estendeva, diventava sempre più importante il controllo delle fonti delle relative materie. L’espansione turca della metà del XV secolo era motivata dalla conquista del territorio bizantino, che aveva monopolizzato la produzione e il commercio della seta e dell’allume verso l’occidente, e dall’occupazione delle fertili terre balcaniche. L’interruzione dell’accesso occidentale alla via terrestre della seta, controllata dai Turchi, spinse alla ricerca di una strada per la Cina attraverso l’oceano occidentale.

Il nuovo continente fu incontrato nel viaggio “per cercare la via delle spezie”, e, una volta incontrato e rivelatosi ricco di tutto, dai metalli, alle piante, a nuovi alimenti, fu “conquistato” selvaggiamente e saccheggiato da un paese europeo dopo l’altro, in gara per lo sterminio dei nativi e l’importazione di mano d’opera schiava dall’Africa. Si ampliano così i mercati, si moltiplicano le manifatture e aumenta il numero dei consumatori.

Ogni volta che vengono scoperti nuovi usi commerciali per prodotti naturali — cotone, indaco, gomma, metalli — l’Europa è sufficientemente potente per lanciarsi in nuove avventure imperiali, con blocchi che si formano e si disfano, talvolta ammantati dalle scuse di fedeltà religiose — alla chiesa di Roma, alla  riforma protestante — ma animate in realtà soltanto dal bisogno di conquistare merci.

E quando, in tempi più recenti, alcuni paesi coloniali tentano progressivamente di liberarsi e di  costituire stati indipendente, i paesi imperiali tentano a volta a volta di soffocare la smanie  indipendentiste, o di tenere sotto controllo con forniture di tecnologie, di armi, di modelli di vita occidentali, con la corruzione dei governanti, i paesi fornitori di materie prime.

Così negli ultimi decenni ci sono state le guerre per il petrolio con i paesi arabi e col Medio Oriente, per il cromo, l’uranio e il cobalto nello Zaire, per l’uranio nel Niger, per il petrolio e i diamanti in Angola, per  la gomma nel sud-est asiatico, per i fosfati nel territorio del popolo Sarawi, per il rame in Cile, eccetera. E, quando occorre, i paesi industriali non esitano a sobillare guerre fra etnie per poter vendere armi e continuare a svolgere la loro funzione di dominatori e di mercanti.In questi ultimi anni la fine del comunismo nell’Unione sovietica e nei paesi satelliti e della  contrapposizione fra i due grandi imperi, Stati uniti e Unione sovietica, ha portato alla creazione di un grande nuovo impero, con i relativi paesi satelliti, l’impero del Nord del Mondo, dedicato al dominio sui paesi del Sud del mondo e sui relativi materie e mercati.

La violenza nella società paleotecnica

Con l’aumento delle merci assicurate dalle guerre imperialiste si ebbero, fra il 1500 e il 1600,  alcune svolte fondamentali nella storia della tecnica, grazie anche a numerose scoperte scientifiche: la prima fu la scoperta che il carbone estratto dal sottosuolo poteva sostituire il legno come fonte di energia per il riscaldamento e l’estrazione dei metalli.

Anche qui, con una reazione a catena, si susseguono la scoperta della macchina a vapore; il suo perfezionamento per produrre energia con meno carbone; la  scoperta che era possibile ottenere più ferro con il carbone fossile anziché con il carbone di legna; che le maggiori quantità di ferro a basso prezzo permettevano la fabbricazione di macchine capaci di moltiplicare la produzione delle merci e di sostituire il lavoro umano, dapprima  nell’industria  tessile e poi in  tutte le attività; la scoperta che il sale e lo zolfo potevano essere trasformati in acidi, sali, sostanze alcaline.

I  cambiamenti si fanno più rapidi e rivoluzionari a partire dalla fine del 1700 e giustamente Friedrich Engels (1820-1895) nel 1845 ha chiamato questa transizione la “rivoluzione industriale”. A loro volta Geddes e Mumford hanno chiamato questo periodo della storia dell’umanità “era paleotecnica“, caratterizzata da una tecnica primitiva e devastante per la natura.

L’avvento dell’era paleotecnica ha avuto alcune importanti conseguenze. La prima è la nascita del capitalismo moderno: la produzione delle merci richiede macchinari costosi per il cui acquisto occorre denaro. L’imprenditore non è più l’inventore, o l’innovatore, o la  persona più abile o coraggiosa o capace, ma chi possiede denaro ed è animato da un’adeguata frenesia di aumentarlo con il profitto.

La seconda conseguenza è l’avvento di un nuovo tipo di lavoratore, l’operaio, legato alla  macchina (e la “macchina” può essere anche il sofisticato calcolatore elettronico dell’età contemporanea). Il fine del lavoro non è la dimostrazione della bravura, ma la conquista del salario che deve essere impiegato per l’acquisto delle merci, sia di quelle indispensabili, sia di quelle superflue alla cui conquista, in crescente quantità, il lavoratore è spinto dalla  competizione sociale, dalla propaganda eufemisticamente chiamata pubblicità.

Di conseguenza aumenta l’offerta e la domanda di merci da “consumare”, e la diffusione di una “società dei consumi” o “consumistica”, funzionale alla crescita del profitto del capitalista; l’aumento dei posti di lavoro è necessario per l’aumento della popolazione di nuovi consumatori. Le merci non vengono prodotte per soddisfare dei bisogni reali, ma per tenere in moto la spirale produttiva.

Nella società paleotecnica in cui viviamo lo spendere diventa la principale sorgente di delizie e, inoltre, viene a costituire un dovere sociale. La maggior parte delle merci sono rispettabili e desiderabili indipendentemente dai bisogni che possono soddisfare. In tutto questo grande gioco vengono inventati dei bisogni che spingono a desiderare merci e quindi a chiederle alle manifatture, e quindi ad avere maggiore bisogno di denaro, e quindi ad offrirsi in quantità crescente come mano d’opera, in una spirale tale che viene da chiedersi se questo è veramente lo scopo della vita.

Per  fermarsi al caso delle classi meno abbienti, nei paesi industrializzati assistiamo continuamente all’impiego del salario per sostenere consumi che rappresentano l’illusoria fuga dai limiti della propria classe. L’indebitamente collettivo per ubbidire ad una moda di consumi ispirata dal fabbricante, fa sì che l’analfabetismo conviva con i più  moderni elettrodomestici, che le famiglie facciamo sfoggio di superfluità sacrificando ben più importanti valori come l’istruzione e la salute e la sicurezza dei figli.

Già un secolo e mezzo fa Carlo Marx offriva un quadro illuminante, e del tutto valido ancora oggi, dei rapporti fra mercanti, lavoratori e merci. Nell’ambito della proprietà privata —  scriveva nel terzo dei “Manoscritti economico-filosofici del 1844″ — “ogni  uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza, per spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spoliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno di denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole,la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro”.

La violenza delle merci sbagliate

 Si è già accennato in precedenza al carattere conflittuale fra mercante e acquirente, fra il fabbricante e venditore delle merci, e il consumatore. Col continuo sviluppo della società capitalistica il profitto è assicurato dall’espansione della quantità delle merci vendute e dal divario fra costo di produzione e prezzo delle merci. Non c’è quindi da meravigliarsi che sia aumentata la comparsa e diffusione di merci sbagliate, alterate, sofisticate, poco durevoli, pericolose.

Una merce ben progettata, ben fabbricata, che continua a lungo a svolgere la propria funzione, è quanto di più indesiderabile si possa immaginare per il venditore. Da qui lo sviluppo di una vera scienza dell’inefficienza, della  pericolosità, dell’inaffidabilità, della rapida obsolescenza, cioè di tutti quei caratteri che portano il consumatore a buttare via in breve tempo una merce per sostituirla con altre che tengano in moto la grande ruota della produzione, delle vendite, dei profitti. Un ruolo fondamentale in questa ruota è assicurato dalla moda, cioè da tutti gli strumenti che assicurano il più rapido invecchiamento, perché “fuori moda”, di qualsiasi merce.

Si  potrebbe scrivere una storia economica delle merci sbagliate, delle fabbriche costruite per produrre merci sbagliate e che sono state rapidamente chiuse o che non hanno prodotto niente. Fra gli esempi si possono citare gli stabilimenti, costruiti con pubblico denaro in Calabria e in Sardegna, per la produzione di bioproteine e che non sono mai entrati in funzione; gli stabilimenti  siderurgici sovradimensionati — e le centrali nucleari, emblema di tutte le merci e tecnologie sbagliate anche per le loro conseguenze disastrose, nel presente e nel  futuro, sull’ambiente e sulla vita umana.

Fra le merci sbagliate e violente un cenno meritano quelle che provocano assuefazione nei consumatori: il fumo e le droghe. I prodotti da fumo, causa sicura della morte per tumore di circa 100.000 persone all’anno solo in Italia,  non solo sono pubblicizzati in tutti i modi con il compiacimento, il silenzio o la complicità dei governi, ma addirittura in Italia sono fabbricati e venduti dallo stato che sana una parte dei propri debiti con il ricavato dalle imposte sulle sigarette. Uno stato che si comporta come venditore di, e speculatore su, merci mortali. Dal punto di vista di una economia del profitto addirittura i prodotti da fumo e le droghe sono  merci “perfette” perché, una volta che hanno conquistato un consumatore, garantiscono al mercante che questo consumatore è a lui legato fino alla morte.

Le merci oscene

 Un’ultima considerazione merita di essere dedicata alle merci oscene, le armi, che assommano tutte le “virtù″ della categoria delle merci capitalistiche: il massimo profitto per l’imprenditore, la necessità di continuo ricambio, la massima efficienza come effetto mortale sugli esseri umani, sui beni materiali e sui beni della natura. La produzione di armi è sempre stata importante per le azioni imperialiste, dagli antichi regni alle guerre recenti, ma mai forse come in questi ultimi decenni ha raggiunto un grado di perfezione così elevato.

La distensione fra paesi capitalistici ed ex-socialisti non ha ridotto la produzione di armi, ma ha anzi creato un grande supermercato internazionale con un  fatturato mondiale annuo che si aggira sui mille miliardi di euro, più del prodotto interno lordo dell’Italia agli inizi del 2000.

Gli eventi del Golfo Persico, del 1990-1991e del 2003, hanno mostrato come una sola potenza imperiale, gli Stati uniti, possa, e si vanti di, schierare una  formidabile e costosissima macchina bellica per risolvere, in fondo, limitate o fittizie controversie che però toccavano il prezzo che l’America avrebbe dovuto  pagare per approvvigionarsi di petrolio.

D’altra parte tutte le potenze industriali tengono in piedi delle attività produttive centrate sulla fabbricazione di armi — per uso interno e destinate all’esportazione  — da quelle tradizionali, sia  pure sempre più “perfezionate”, a quelle batteriologiche e chimiche, fabbricabili negli stessi stabilimenti che producono pesticidi o materie plastiche, “ideali” per i paesi poveri; ai quali paesi poveri  possono essere offerte anche armi a basso prezzo, come le mine antiuomo, che con poche decine di euro lire riescono a mutilare un soldato, un guerrigliero o un bambino.

Nonostante i trattati e le dichiarazioni di volontà di ridurre gli armamenti nucleari e gli arsenali esistenti prima della distensione, trentamila bombe nucleari sono ancora, all’inizio del XXI secolo, a disposizione delle grandi potenze. Le bombe nucleari esistenti ancora negli arsenali del mondo hanno una potenza distruttiva  equivalente a quella di 4000 milioni di tonnellate di tritolo (quattromila megaton),  mille volte superiore a quella di tutti gli esplosivi usati durante la seconda guerra mondiale, ventimila volte superiore a quella delle bombe che distrussero Hiroshima e Nagasaki.

La battaglia contro la violenza del complesso militare-industriale, che esiste e sopravvive soltanto tenendo in  piedi conflitti e fabbricando strumenti di  distruzione e morte, deve ricordare a tutti che una delle caratteristiche delle armi è data non solo dagli effetti immediati, ma anche dagli effetti che si prolungano nel tempo.

La distruzione delle scorte di aggressivi chimici e biologici militari comporta  difficoltà tecniche e inquinamenti che mai si erano presentati in precedenza. I materiali esplosivi delle armi nucleari conservano la loro radioattività per  decenni e secoli e devono essere sepolti non si sa come, non si sa dove, per centinaia di secoli. Il loro alto valore distruttivo, inoltre, alimenta  la tentazione di furti a fini  di ricatto o di attività criminali di cui si hanno appena adesso alcuni episodi. Il  sistema militare-industriale, insomma, lascia una eredità di violenza alle future generazioni come mai era successo prima.

La violenza delle merci contro la natura

Un’altra conseguenza della società dei consumi è rappresentata dalla rapida espansione della “tecnosfera” e dall’aumento del peso e del volume delle scorie che vanno a modificare negativamente il regno della natura.

Si è già accennato che la principale differenza fra la biosfera e la tecnosfera sta nel fatto che la prima “funziona” con cicli sostanzialmente chiusi, mentre nella tecnosfera la produzione delle merci è accompagnata da una graduale sempre più forte rottura dei cicli naturali. La produzione delle merci comincia con la sottrazione, spesso irreversibile, di beni dalla natura la cui dimensione è grande, anzi molto grande, ma non illimitata. Si tratta di beni talvolta rinnovabili (come gli  alimenti vegetali e animali, l’acqua), talvolta non rinnovabili, come le pietre, i minerali, le fonti  energetiche fossili. L’estrazione di beni dalla natura ad opera delle attività umane lascia comunque un “buco” nelle riserve della natura disponibili per le generazioni future.

Le risorse della natura passano attraverso un processo di produzione delle merci che fornisce, insieme, merci e scorie. Per il principio di conservazione della  massa, la quantità delle merci prodotte è inferiore alla quantità delle risorse naturali entrate nel processo di produzione. La differenza è rappresentata dai  sottoprodotti, scorie o rifiuti che tornano al mondo della natura. Per il carattere innovativo e  intensivo dei processi umani, tali scorie per lo più non sono degradabili dai processi naturali, o sono in quantità superiore alla capacità di  depurazione dei corpi riceventi naturali e, insomma, peggiorano la qualità di tali corpi riceventi: aria, acque, suolo. In molti casi il peso dei residui e rifiuti solidi, liquidi e gassosi è due o tre o più volte superiore al peso delle merci perché il loro uso comporta l’aggiunta di ossigeno tratto dall’atmosfera. Alla fine del processo di produzione — ma anche alla fine del processo di “consumo” — la qualità delle acque, dell’aria e del suolo è peggiore di quella che si aveva all’inizio del ciclo.

Comunque il termine di “consumo” delle merci è del tutto inappropriato. In realtà gli esseri umani non consumano niente: tutte le merci, dopo essere state usate per un tempo più o meno lungo, ritornano all’ambiente naturale circostante. Moltissime  merci hanno vita breve: gli alimenti, la carta dei giornali, gli imballaggi, i combustibili: poco tempo dopo essere stati utilizzati vengono eliminati come escrementi, come gas, come rifiuti solidi.

Alcune altre merci vengono immobilizzate per tempi più o meno lunghi all’interno della tecnosfera: le automobili, molti elettrodomestici e macchinari, i televisori, i  calcolatori elettronici hanno alcuni anni di vita, dopo di che vengono buttati via come scarti; i libri che vengono conservati nelle biblioteche, il cemento, il ferro, il vetro, i tubi di plastica impiegati negli edifici, possono restare in servizio per decenni. Pochi edifici resistono qualche secolo. Come conseguenza si osserva un’espansione della “tecnosfera” che si gonfia continuamente per il peso e il volume delle merci che trattiene al suo interno.

Nello stesso tempo la sempre più rapida estrazione dalle riserve della natura di acqua, minerali, fonti di energia, vegetali, animali, per fini merceologici, comporta un impoverimento di tali riserve le cui dimensioni diminuiscono sempre, al punto che le generazioni future avranno sempre meno beni naturali a  disposizione.

Tanto per avere un ordine di grandezza, è stato calcolato che il peso della materia — materie prime, merci, scorie — che attraversa in un anno la tecnosfera si aggiri  intorno a 40 miliardi di tonnellate, un valore enorme se si confronta con quello della produttività primaria netta, cioè con il peso della biomassa vegetale (secca)  “fabbricata” in un anno dalla fotosintesi, peso che, sulle terre emerse, risulta di circa 100 miliardi di tonnellate. L’aumento di peso della tecnosfera, la causa di  quel continuo “rigonfiamento” di cui si parlava  prima, si può stimare di 10 – 15 miliardi di tonnellate all’anno. Dove metteremo un giorno queste merci e scorie ?

Chi ci salverà ?

 Insomma, si può ben dire che la crescita della quantità degli oggetti è la principale fonte della violenza contro altri esseri umani, contro i paesi che possiedono nel loro territorio risorse naturali economiche e materie prime, contro gli altri esseri viventi, vegetali e animali e contro la natura inanimata: aria, fiumi, mare.

La salvezza va allora cercata in una rottura di questi rapporti violenti, a cominciare dal cambiamento del rapporto fra gli esseri umani e le cose materiali. I punti di lotta sono una revisione critica dei nostri modi di produzione, la contestazione (una vera obiezione di coscienza) della società dei consumi, l’identificazione di nuovi modi di vita per noi, abitanti nel Nord del mondo, e di nuovi modi per risolvere i problemi della povertà degli abitanti del Sud del mondo, la lotta contro la struttura militare-industriale che è la più alta espressione della violenza e dello spreco.

Già  nei primi anni settanta del Novecento è stato mostrato che la violenza degli oggetti è proporzionale al prodotto di tre  grandezze: il numero di individui che  acquistano e usano oggetti; la quantità degli oggetti acquistati da ciascuna persona;  e la qualità di ciascuna merce, qualità che potrebbe essere espressa come  effetto inquinante, o come effetto di impoverimento delle riserve delle risorse naturali.

Una diminuzione della violenza, da attuare con strumenti  tecnici  e legislativi, presuppone un  più lento aumento, o una diminuzione, sia della popolazione  mondiale, sia della quantità di merci messe in circolazione, e un cambiamento radicale della qualità delle merci. Questi cambiamenti sono imposti da   considerazioni ecologiche e fisiche che derivano dal carattere intrinseco della  biosfera, che ha  dimensione  grande, ma limitata, e che rappresenta l’unica fonte delle nostre ricchezze naturali e merceologiche.

La necessità di porre un limite alla quantità di risorse naturali estratte, a fini produttivi economici, dalla biosfera e alla quantità di scorie, di merci usate che nella biosfera vengono immesse, è implicita nelle leggi fondamentali dell’ecologia. Ogni ecosistema naturale o artificiale — anche una abitazione, un edificio, una città “funzionano” come ecosistemi, sia pure artificiali — ha una sua capacità portante e  ricettiva limitata per la vita, per gli esseri che l’abitano e per le scorie delle loro attività. Gli  ecologi indicano questa proprietà come carrying capacity di un ecosistema, misurata come il  massimo numero di esseri viventi, vegetali o animali,  che un territorio della biosfera può nutrire e i cui  rifiuti può smaltire.

Un pascolo può alimentare un certo numero di animali: se si supera tale numero — la carrying  capacity del sistema — gli animali non trovano cibo sufficiente e entrano in concorrenza e conflitto per la conquista del cibo, e gli escrementi immessi nel pascolo contaminano il suolo e impediscono la produzione di nuova erba. Ben presto il numero di animali non aumenta più o addirittura diminuisce. Se  si coltiva per molti anni di seguito un terreno, i vegetali “portano via” dal suolo le sostanze nutritive e dopo qualche tempo le sostanze nutritive residue sono diminuite al punto che la produzione vegetale diminuisce.

Lo sapevano gli Ebrei a cui, nel libro del Levitico, era ordinato di non coltivare il terreno ogni sette anni (l’anno sabatico); i Romani sapevano che occorreva coltivare ad  anni alterni cereali e leguminose; i primi impoveriscono di azoto il terreno e le seconde restituiscono l’azoto al terreno.Il grande chimico Justus von Liebig (1803-1873), intorno alla metà del 1800, studiando la nutrizione vegetale aveva riconosciuto che la resa di una coltura  vegetale diminuisce se manca anche una sola delle sostanze nutritive occorrenti, chiamata sostanza limitante (è questa la “legge del minimo”).

La cultura del limite

A partire dalla seconda metà del 1800 si sono  cominciati a riconoscere i segni dell’impoverimento delle riserve di carbone in Inghilterra, e più tardi si è osservato l’impoverimento dei giacimenti di salnitro nel Cile, di zolfo in Sicilia, di fosfati nelle isole dell’Oceania, di petrolio negli Stati Uniti. L’attenzione per la crisi ecologica, agli inizi degli anni sessanta del Novecento, ha indotto a esaminare criticamente lo sfruttamento della natura come fonte di materie  scarse e come collettore, di dimensioni limitate, delle scorie delle attività umane. Sono così comparse delle proposte di porre dei limiti, per esempio alla crescita della popolazione e della produzione di merci.

La proposta più discussa fu elaborata dal Club di Roma nel 970-72 e fu presentata all’opinione pubblica in un libro, apparso nel 1972, intitolato “I limiti alla crescita” (ma nella edizione italiana il titolo fu tradotto, erroneamente, come “I limiti dello sviluppo”, che significava tutt’altra cosa). Il  libro sosteneva che se continuano ad aumentare, ai ritmi di allora e ai ritmi anche di oggi, la popolazione terrestre e la produzione agricola e industriale, ben presto l’umanità va incontro a scarsità di materie prime, a perdita di fertilità del suolo, a mancanza di acqua dolce, a inquinamenti tali da generare malattie, epidemie e conflitti così violenti da far addirittura diminuire la popolazione mondiale. Per evitare tutto questo è necessario porre dei limiti, appunto, alla crescita della  popolazione e dei consumi.

Il libro fu oggetto di violente critiche: alcuni sostenevano che l’economia sa affrontare bene i problemi di scarsità; altri sostenevano che le innovazioni  tecniche, come l’energia nucleare, avrebbero fornito energia e alimenti e materie illimitate anche a decine di miliardi di terrestri. Le obiezioni si sono rivelate inconsistenti, come ha dimostrato l’aggravarsi della crisi ambientale, proprio in conseguenza del non aver dato retta agli avvertimenti. Nel 1980 apparve negli Stati uniti un’altra analisi dei problemi della scarsità, intitolata “Global 2000″, anch’essa oggetto di critiche.

Il problema è aggravato dal fatto che sono molto diversi, nel Nord e nel Sud del mondo, la distribuzione della popolazione e la disponibilità e i “consumi” delle merci. La minoranza dei terrestri che abita nel Nord del mondo —  circa 1500 milioni di persone (nel 2003) nell’America settentrionale, nell’Europa  occidentale e orientale, in Russia, in Australia, in Giappone — usa (“consuma”) circa il 70 % degli alimenti, dell’energia, della carta, dei metalli prodotti. I restanti circa 4800 milioni (sempre nel 2003) di persone — in Africa, Asia,  America centrale e meridionale — dispongono i una piccola frazione dei beni estratti dalla biosfera, pur con forti differenze anche all’interno di questo grande aggregato.

Qualsiasi proposta di porre dei limiti allo sfruttamento della Terra e alla produzione e ai consumi delle merci, implica che il Nord del mondo deve diminuire i propri consumi per lasciare al Sud del mondo (che comprende, come si è detto, i tre quarti della popolazione mondiale) le risorse naturali indispensabili perché possa liberarsi dalle attuali condizioni di scarsità, di fame e povertà e di arretratezza.

La necessità di un riequilibrio fra sfruttamento della natura e produzione di beni nel Nord e nel Sud del mondo è ben sentito da molti paesi del Sud del mondo che accusano il Nord del mondo di usare l’ecologia come nuovo strumento di imperialismo e di sfruttamento del Sud del mondo. Il Nord del mondo, essi dicono, vuole continuare sulla sua strada di crescita economica e merceologica violenta e vuole imporre, a noi, abitanti dei paesi poveri, di non tagliare le foreste e di rinunciare all’utilizzazione delle nostre miniere e dei nostri pascoli, di restare poveri, insomma, nel nome di ipotetici interessi “comuni” del pianeta. Qualsiasi proposta di cambiamento è credibile, quindi, soltanto nell’ambito di un progetto di  solidarietà, ricordando che ci si salva tutti insieme o non si salva nessuno.

Il più recente movimento diretto a ripensare il futuro dell’umanità è la proposta di realizzare una “società sostenibile”, in grado di utilizzare le risorse della natura  per soddisfare i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la disponibilità delle risorse che saranno necessarie per lo sviluppo delle generazioni future.

Fino adesso è stato fatto credere che lo sviluppo consiste nel possesso di una crescente quantità di merci per tutti i terrestri. Appare invece sempre più evidente  che, al di la’ di una soglia di produzione e disponibilità di merci, si va incontro a crisi — una delle quali è quella ecologica — che compromettono la salute, la giustizia distributiva, il benessere umano: che compromettono, insomma, il vero sviluppo, definito come accesso di tutti ai diritti, alla libertà, alla dignità, all’aria pulita e alle acque non contaminate.

La stessa definizione di sostenibilità ha già in sè qualcosa di sovversivo rispetto  alle attuali leggi della società del libero mercato e capitalistica, leggi e regole  ormai adottate, dopo la rinuncia a soluzioni socialiste e comuniste, da tutto il mondo. Infatti il dogma della crescita del prodotto interno lordo, per esempio, implica, inevitabilmente, l’aumento della produzione di merci e l’aumento dello sfruttamento e della contaminazione della biosfera.

Ma, a ben guardare, anche la  realizzazione di una società sostenibile è un’utopia: qualsiasi aumento della produzione di beni materiali e di merci, si lascia alle spalle una natura con riserve di risorse impoverite e con corpi naturali — acqua, aria, suolo — più contaminati. Si può ben dire che le attuali tendenze sono insostenibili.

Tutto quello che si può cercare di fare è realizzare una società meno insostenibile; per tale impresa sono disponibili conoscenze  tecnico-scientifiche, movimenti di opinione, proposte di uso diverso  delle materie, nuovi processi di produzione  e di uso delle merci, nuovi processi di trattamento delle scorie.

Le condizioni di tale trasformazione sono già state anticipate da Lewis Mumford, quando ha parlato, nel suo libro: “Tecnica e cultura”, del 1934, di avvento di una “società neotecnica” nella quale avrebbe dovuto essere fatto un ricorso più intenso, ma diverso dall’attuale, alla scienza e alla tecnica. Tale società neotecnica, a sua volta, avrebbe dovuto essere l’anticamera di una società biotecnica, basata su un uso crescente delle risorse e fonti di energia rinnovabili, quelle tratte dal Sole, dalla biomassa, dai grandi cicli naturali chiusi.

Comunque va smentita la corrente teoria che la società del futuro sarà sempre più  telematica, virtuale, biotronica, sarà sempre più smaterializzata. Pochi semplici calcoli mostrano che se i paesi del Sud del mondo faranno qualche passo, anche  piccolo, verso la soluzione dei propri problemi di povertà, la domanda  mondiale  di beni materiali, fisici, tratti dalla natura, e la quantità delle relative scorie continuerà ad aumentare. La società del futuro sarà inevitabilmente sempre più basata sui beni materiali; il peso delle merci e delle scorie addirittura raggiungerà valori drammatici e insostenibili, a meno che i paesi del Nord del mondo non riducano drasticamente i propri consumi materiali.

Produrre che cosa ?

L’analisi della violenza delle merci dei paesi industriali non deve far dimenticare che i bisogni umani, comunque, richiedono dei beni materiali. Tali bisogni possono essere abbastanza elementari —  il bisogno di cibo, di acqua, di abitazione, di  indumenti —  o più complessi: il bisogno di curare le malattie, di spostarsi, di comunicare con altri, di leggere, di riposarsi, oltre a bisogni, altrettanto  fondamentali, ma ancora più complessi, come quelli di libertà, di dignità, di  lavoro, peraltro legati anch’essi alla disponibilità di beni materiali. E’ difficile essere sani, avere una vita dignitosa se si abita in baracche senza acqua e gabinetti, in promiscuità, se manca l’accesso alle informazioni.

A mano a mano che una società progredisce, la maggior parte dei bisogni risulta soddisfatta abbastanza bene e la domanda di un certo numero di merci durature — la casa, le scarpe, le automobili, i mobili, eccetera — si satura. Le imprese produttrici di beni duraturi devono allora arrabattarsi a inventare nuove merci, devono spingere i consumatori a ricambiare rapidamente i beni materiali che possiedono, e di questo vivono, come si è visto, le industrie della pubblicità e della moda.

Peraltro la saturazione del mercato riguarda soltanto i paesi del Nord del mondo, con la loro popolazione di circa 1500 milioni di persone; questi, come si ricordava prima, tengono in moto la spirale delle merci sfruttando i due terzi delle risorse naturali del pianeta. Tutti gli altri, circa 4800 milioni di persone, non solo non hanno a disposizione merci simili alle nostre, ma non sono in grado neanche di soddisfare molti bisogni che noi consideriamo elementari: cibo, acqua, abitazioni, servizi igienici, informazioni, eccetera.

Esiste una violenza anche nella mancanza di questi beni: tale violenza si manifesta contro altri esseri umani, nelle lotte fra poveri per la conquista di risorse scarse, nel terrorismo come rivendicazione o vendetta contro i paesi ricchi, si manifesta  come violenza contro la natura sotto forma di diboscamento, inquinamento delle acque, sfruttamento irrazionale del suolo per strappare un po’ di cibo, distruzione  degli animali.

Nella lotta contro la violenza delle merci bisogna considerare come rendere accessibili ai popoli dei paesi poveri dei beni, che sono per forza oggetti, beni materiali, merci anch’essi, nel senso che si è specificato all’inizio, per soddisfare i loro bisogni.

La prima cosa da fare è chiedersi di che cosa hanno bisogno i 4800, o anche solo i 3000, milioni di persone, per lo più nel Sud del mondo, che chiamiamo “arretrati” rispetto ai nostri standard merceologici. La maggior parte delle merci e dei beni  materiali fabbricati e usati da noi sono inutilizzabili nei paesi del Sud del mondo; le automobili o i trattori o le attrezzature mediche o i frigoriferi fabbricati e venduti  con successo in Italia e in Europa possono rivelarsi del tutto inutili o inadatti nella  maggior parte dei paesi aridi o tropicali, soprattutto per mancanza di parti di ricambio e di manutenzione. Esportare, perciò, tali beni come contributo alla cooperazione internazionale è destinato all’insuccesso (come è già avvenuto).

Bisognerà allora cominciare ad immedesimarsi nelle culture dei diversi paesi, nelle tradizioni religiose, nei materiali o prodotti disponibili sul posto, nelle abitudini di vita, e da qui partire per progettare oggetti e merci accettabili dai, e utili ai, destinatari nel Sud del mondo. Esistono alcuni centri, in varie parti del mondo, per lo sviluppo, la progettazione e la realizzazione di merci e manufatti con tecnologie “appropriate”, che chiamerei “neotecniche” o biotecniche, nel senso del termine usato da Geddes e Mumford, o nonviolente o, comunque, meno violente delle attuali.

Vediamo brevemente alcune strade da battere per la progettazione e produzione di merci e beni materiali nonviolenti.

Problemi di neotecnica e biotecnica

Il primo campo di lavoro riguarda la nutrizione. I paesi del Sud del mondo hanno  spesso delle grandi potenziali risorse alimentari che non vengono utilizzate  adeguatamente dagli abitanti per mancanza di conoscenze, per esempio sulla conservazione delle derrate alimentari.

Nei paesi industriali l’elevata qualità dell’alimentazione disponibile dipende da una secolare continua evoluzione delle tecniche di conservazione dei prodotti agricoli. Quelli ottenuti in una regione e in una stagione vengono trasformati, stabilizzati, essiccati o conservati in modo da essere utilizzabili giorni o mesi dopo la confezione, quindi a grandi distanze dai luoghi di produzione. Tecniche di conservazione sofisticate, come la surgelazione, basata su una gigantesca anche se quasi invisibile “catena del freddo” che consente agli alimenti freschi di viaggiare ad una temperatura di venti gradi Celsius sotto zero per centinaia o migliaia di chilometri, hanno un altissimo costo energetico, comportano grandi sprechi e non sono esportabili nel Sud del mondo.

Occorre allora pensare a tecniche, adatte alle condizioni locali, per una migliore conservazione dei prodotti locali, dalla frutta ai prodotti della pesca, per la lotta ai parassiti che distruggono grandi quantità di raccolti nei silos e nei magazzini. Occorre conoscere, caso per caso, le disponibilità locali di risorse naturali, le cause della distruzione di prodotti alimentari, quali prodotti vegetali o animali  possono essere trattati per ricavarne nuovi alimenti, accettabili dalle comunità locali, o integratori alimentari.

E’ possibile estrarre proteine dalle foglie di vegetali anche non  alimentari (la carenza di proteine è una delle cause di molte malattie da sottoalimentazione) o disidratare con tecniche appropriate i prodotti della pesca appena pescati, in modo da ottenere farine ad alto contenuto di proteine da addizionare a cereali, patate, tuberi amidacei. Ma il trasferimento dei risultati ai vari paesi interessati lascia ancora molto a desiderare.

Di tutta l’enorme ricchezza di specie vegetali e animali offerte dal regno della natura quelle usate a fini commerciali ammontano, come si è detto, a poche decine; della maggior parte delle specie esistenti non si conoscono composizione, proprietà, caratteristiche. Questa ignoranza causa la perdita di innumerevoli occasioni di coltivazioni e allevamenti da cui potremmo trarre molti materiali — elastomeri, alimenti, materiali da costruzione, materie plastiche, fibre tessili, isolanti, medicinali, eccetera — utili e meno inquinanti, da usare come sostituti di quelli che usiamo oggi nella forma che è stata decisa come più comoda e profittevole dal grande capitale multinazionale.

Un secondo campo di lavoro neotecnico riguarda l’acqua: in moltissimi paesi gran parte delle malattie sono portate dall’acqua impura o contaminata da escrementi umani o animali; nei paesi arretrati mancano tecniche di raccolta, distribuzione e  sterilizzazione delle acque esistenti sul posto. Per quasi tutti i paesi del Sud del mondo c’è una domanda di impianti di potabilizzazione relativamente semplici, che richiedono poca manutenzione, basati su materiali da costruzione resistenti  alla corrosione e su fonti di energia disponibili sul posto.In molte zone del Sud del mondo la dissalazione, con tecniche più o meno raffinate, di acque salmastre o di acqua di mare potrebbe fornire acqua dolce per le più urgenti necessità alimentari.

Per molte zone della Terra il primo passo verso lo sviluppo consiste nel disporre di abitazioni. Il passaggio da abitazioni primitive o baracche a qualcosa che sia “casa”, cioè luogo in cui non solo abitare o dormire, ma vivere come famiglia e comunità, può spesso richiedere tecniche apparentemente abbastanza primitive o semplici, ma  che tuttavia rappresentano una svolta rivoluzionaria. Sono state proposte case di cartone impermeabilizzato, ripiegate e montabili sul posto di installazione con accorgimenti semplici e con basso costo energetico e consumo di materiali da costruzione: case che tuttavia hanno elevate caratteristiche di isolamente termico, di illuminazione, di abitabilità.

Un importante campo di lavoro riguarda la  predisposizione di servizi igienici. Noi siamo abituati che ogni abitazione ha gabinetti e docce con acqua corrente e l’industria del settore vive progettando apparecchiature sempre più complicate e inutili. Attrezzature igieniche, come gabinetti e docce, essenziali per prevenire le malattie, sono inaccessibili ad almeno 500 milioni di famiglie e potrebbero essere fabbricate con tecniche semplici, con alto grado di standardizzazione e ricambiabilità, con materiali resistenti. Fognature a livello di villaggio o di  quartiere e tecniche di trattamento delle acque di fogna, con processi relativamente semplici, potrebbero fermare il flusso delle principali sostanze contaminanti nel sottosuolo o nei fiumi, veicoli di espidemie.

La disponibilità di energia è essenziale per qualsiasi avvio sulla strada della liberazione dalla miseria. Per chi ne è privo, la disponibilità di elettricità per l’illuminazione o per una radio portatile o per il funzionamento di un frigorifero, ha un contenuto liberatorio di cui noi ci siamo dimenticati, tanto questi beni sono per noi usuali, al punto che l’elettricità è usata e sprecata per i fini più frivoli e inutili, nel nome del profitto delle compagnie elettriche.

Per assicurare calore e elettricità alle comunità isolate, ai piccoli paesi e villaggi, occorre utilizzare, con mezzi semplici, ma non per questo tecnicamente meno avanzati, le fonti disponibili sul posto, la legna, l’energia del Sole, del vento, del moto delle acque. Purtroppo la maggior parte della sperimentazione con l’energia solare è stata condotta pensando di sostituire con il Sole le fonti energetiche tradizionali dei paesi industriali. Ne sono derivati dispositivi spesso complicati, di delicato funzionamento e manutenzione, paleotecnici e violenti.

Tutti i sistemi — solari, eolici, idrici — sperimentati e utilizzati su larga scala nei paesi industriali devono essere riprogettati per rispondere ad una domanda di grande semplicità, ridotta manutenzione e anche “comprensibilità” da parte delle popolazioni locali. Una  macchina può avere successo soltanto se gli abitanti di un villaggio ne capiscono il funzionamento e sono disposti a collaborare alla sua manutenzione.

I mezzi di trasporto belli, comodi, raffinati, a cui siamo abituati, sono inutilizzabili  sulle strade  e nelle condizioni di vita, di freddo e di caldo della maggior parte dei paesi del Sud del mondo. E’ probabilmente necessario cominciare a progettare e costruire dei tipi di veicoli, simili alla Jeep americana della II guerra mondiale, capaci di funzionare su qualsiasi strada, con qualsiasi pendenza, in qualsiasi clima, facili da guidare, in cui ogni parte sia talmente standardizzata da poter essere, in caso di danneggiamento, sostituita con la stessa parte prelevata da un altro veicolo. Lo stesso discorso vale per la progettazione di autobus, o di macchine agricole, dai trattori agli aratri, ai macchinari per la raccolta e lavorazione dei prodotti, progettati per condizioni severe di funzionamento e di scarsità o mancanza di manutenzione e ricambi.

Un’economia nonviolenta

Per una svolta dall’attuale era paleotecnica e violenta di produzione e uso delle merci ad  un’era  neotecnica occorre cercare e trovare nuovi indicatori del  valore, capaci di riconoscere che valgono di più gli oggetti e le merci che, a parità di  servizio umano offerto, consumano meno energia e meno risorse naturali,  inquinano meno e durano di più, hanno un maggiore contenuto di lavoro umano; capaci di distinguere gli oggetti e i servizi che sono essenziali e prioritari da quelli  che sono semplici occasioni di esibizione e di spreco e che hanno un maggiore “contenuto” di violenza.

Nuove scale di valori che impongono la riscrittura dell’economia politica, l’elaborazione di una neoeconomia. Una  tale  svolta è possibile nelle attuali  società capitalistiche, ai cui vertici siedono persone più attente agli interessi dei mercanti che a quelli degli esseri umani ? E  fra le società capitalistiche comprendo quelle dei paesi ex-socialisti la cui recente conversione alle leggi del libero mercato si sta già scontrando con i problemi della  scarsita’ delle risorse e  con quelli della violenza delle merci paleotecniche.

La fine del comunismo (o di quel che era) nei paesi ex-socialisti ha fatto sì che ci sono ora 300 milioni di persone — e fra poco nel gran circo delle merci sta per arrivare oltre un miliardo di cinesi — scatenate anche loro nella corsa ai consumi, ai profitti, alla volontà di tenersi ben strette le bombe nucleari, di devastare il territorio e l’ambiente: tutti inevitabili frutti delle delizie dell’albero del “mercato”.

Sono queste delizie che assicurano una crescente povertà e disoccupazione nelle classi povere dei paesi ricchi, una crescente povertà nei paesi poveri, una crescente tensione fra poveri, un peggioramento della qualità dell’aria, delle acque, del mare. “Mercato”, nel corrente significato, indica la necessità, anzi l’obbligo morale, di aumentare le  merci possedute da una minoranza attraverso l’imposizione  di modelli violenti di comportamento e di consumi. La società del “mercato” deve convincere i “consumatori” che si esiste, si è visibili, soltanto possedendo più merci, dai mezzi di trasporto, a indumenti e modi di alimentazione, a strumenti di comunicazione sempre più sofisticati: la pubblicità, amplificata attraverso la televisione ormai planetaria, è il veicolo efficacissimo di questo modello di violenza.

Per una società neotecnica

Forse la liberazione dalla violenza delle merci è realizzabile soltanto con l’avvento di una società pianificata e socialista, capace di darsi delle nuove regole, compatibili con i problemi di scarsità e di distribuzione secondo giustizia. Nel libro “Tecnica e cultura”, del 1934, più volte citato, Mumford chiariva che l’avvento di una società neotecnica e di una nuova economia  presupponeva una pianificazione dei bisogni fondamentali, il potenziamento dei servizi e dei beni collettivi.

La soluzione va cercata in quello che Mumford chiama “comunismo di base”, ben diverso, precisò Mumford in una nota scritta negli anni quaranta del Novecento, una decina di anni dopo la prima pubblicazione del libro, dal comunismo burocratico e assolutista dei paesi del socialismo “realizzato”; un “comunismo di fondo”, che implichi l’obbligo di partecipare al lavoro della comunità, che consenta di soddisfare i fabbisogni fondamentali con una pianificazione della produzione e del consumo.

La sola alternativa a questo comunismo è l’accettazione del caos: le periodiche chiusure degli stabilimenti e le distruzioni, eufemisticamente denominate ‘valorizzazione’, dei beni di alto valore, lo sforzo continuo per conseguire, attraverso l’imperialismo, la conquista dei mercati stranieri. Se vogliamo conservare i benefici della macchina non possiamo permetterci il lusso di continuare a rifiutare la sua conseguenza sociale, ossia l’inevitabilità di un comunismo di base. Questa prospettiva appare ingrata all’operatore economico di stampo classico, ma sul piano umano non può non rappresentare un enorme progresso“.

Occorre, insomma, avviare un grande movimento di liberazione per sconfiggere le ingiustizie portate dalle merci, fra gli esseri umani e con la natura, una nuova protesta per la sopravvivenza, capace di farci passare dall’ideologia della crescita a quella dello sviluppo.

Nessuno ci salverà se non le nostre mani, il nostro coraggio di dire “no”, il nostro senso di responsabilità verso le generazioni future, verso il “prossimo del futuro”, di cui non conosceremo mai il volto, ma la cui vita, la cui felicità, dipendono da quello che noi faremo e non faremo, da quello che compreremo e rifiuteremo, domani e nei decenni futuri.

ideato, curato e scritto da Giorgio Nebbia

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